Il Feudo di Valcuvia (1450)

L’infeudazione della Valcuvia da parte della famiglia Cotta ha inizio con la Signoria sforzesca del Ducato di Milano.
   Francesco Sforza entrò in Milano il 26 febbraio 1450:
   "Franciscus Sfortia Vicecome dux, et animo
    invicto et corpore, anno MCCCCL a IIII Calend.
    Martias hora XX dominio urbis Mediolani potitus"
   Così recitava un sasso scoperto nel 1774 durante i lavori di scavo per la costruzione di una casa in Porta Nuova, a Milano.
   Alla morte di Filippo Maria Visconti, ultimo della dinastia (13 agosto 1447) era seguito un periodo di semianarchia, in cui il potere era formalmente in mano di un comitato di "Capitani e Difensori della Libertà di Milano" autoproclamatisi tali.
   Tra tanti stravaganti decreti che essi emisero, ebbero almeno l’accortezza di affidare la difesa esterna della restaurata Repubblica di Milano a Francesco Sforza col titolo di Capitano generale (5 settembre 1447), e lo Sforza seppe disimpegnarsi tanto bene, in parte nei fatti d’arme, in parte con la diplomazia e le sue eccellenti doti personali, che la Signoria di Milano, nel giro di due anni e mezzo, gli cascò praticamente in mano.
   Nel partito sforzesco si era distinto, in questo tumultuoso periodo, un tale Pietro Cotta, esponente di una distinta famiglia che sin dal secolo XIII aveva dato una serie di abati del potente Monastero di S. Ambrogio e di prelati influenti nella politica del Monastero verso la Signoria dei Visconti e verso lo stesso Arcivescovo di Milano.
   Con Francesco Sforza, Pietro Cotta partecipò alla battaglia di Mozzanica (14 settembre 1448) contro i Veneziani e portò a Milano, in una specie di trionfo, le insigne di San Marco tolte ai nemici con i prigionieri più illustri.
   Dopo il trattato di pace stipulato per conto proprio degli Sforza con i Veneziani, Pietro Cotta fece parte di un’ambasceria inviata dai maggiorenti milanesi allo Sforza per indurlo, con belle grazie, a deporre le sue aspirazioni alla Signoria. E infine, durante la carestia del 1449 conseguente al blocco di Milano posto dallo Sforza, si mise a fare propaganda insieme a Cristoforo Pagani contro la dissennatezza dei rettori e consiglieri della città, e nell’assemblea tenutasi nella chiesa della Scala fu posto, con Gasparo da Vimercate, a capo degli insorti che vollero aprire le porte di Milano al grande condottiero.
   Così avvenne che il 16 maggio 1450, neppure sei mesi dopo il suo insediamento, l’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore Francesco Sforza Visconti, Duca di Milano, Conte di Pavia e di Angera, Signore di Cremona, concedesse a Pietro Cotta tramite un suo consigliere, procuratore e mandatario speciale Lancillotto Crotto, l’investitura feudale della Pieve e Valle di Cuvio.
   Nasce così il feudo della Valcuvia.
   Lo Sforza era stato accorto nel concedere al feudatario tutto ciò che gli poteva esser conveniente concedere, ma aveva voluto mantenere per sé un’entrata certa, la "gabella del sale" che si può identificare come una tassa sulle persone fisiche, e la possibilità degli alloggiamenti per i cavalli e le truppe in caso di necessità; e questa poteva diventare una vera iattura per la comunità se si fosse presentato il caso. In cambio, per non scontentare i villici, pretese che il feudatario lasciasse libero il piccolo commercio e, qualora ce ne fossero stati in Valcuvia, i diritti sulle riserve di caccia e sull’estrazione, la lavorazione ed il commercio del ferro a favore degli eventuali esercenti.
   Salvo le eccezioni citate Pietro (primo) Cotta fu dunque feudatario della Valcuvia.
   Alla sua morte il feudo passò al figlio Stefano e, dopo di lui, ai nipoti Gian Ambrogio e Gian Antonio, con una successione per così dire inerziale.
   Intanto la dinastia degli Sforza si era estinta con l’ultimo Duca Francesco II, morto senza eredi il primo novembre del1535. Erano i tempi della lunga querela tra l’Imperatore Carlo V e il Re di Francia Francesco I per la successione del Ducato di Milano, con l’alternarsi di stati di belligeranza e di tregue, con diverse candidature al Ducato sostenute da una parte e dall’altra, finché Carlo V ruppe gli indugi; Carlo V era svelto nelle sue decisioni, non solo sui grossi problemi, ma anche nei dettagli. Egli voleva lasciare le cose certe anche nella periferia dell’impero: così a Bruxelles, neanche dieci giorni dopo aver designato il proprio figlio Filippo Signore di Milano, confermò nel feudo di Valcuvia i fratelli Gian Ambrogio e Gian Antonio Cotta.
   Passarono altri cento anni senza che il feudo uscisse dalle mani della famiglia Cotta, ma in realtà i privilegi ed i poteri del feudatario erano andati sfumando.
   Quanto ai primi il Cotta di turno non aveva nulla da temere, perché in luogo non c’erano grandi proprietari terrieri che potessero rivaleggiare con lui, anche se non possedeva gran che in Valcuvia a titolo di proprietà, né ai villici importava molto ostentare atti di omaggio che costassero poco o nulla, come suonare la campana quando entrava in chiesa o portargli un cappone in qualche festa.
   I diritti giurisdizionali, sanciti nella formula "cum mero et mixto impero et potestate glandij", che indicava la piena giurisdizione civile e penale, compresi i reati che comportavano la pena capitale, erano in realtà soltanto apparenti, perché le cause di particolare gravità erano state avocate al Senato, al quale spettava in ogni caso la giurisdizione d’appello, e perché il feudatario nell’esercizio del suo potere doveva avvalersi di un pretore laureato in giurisprudenza debitamente riconosciuto e approvato dal Senato e dal Senato sempre sindacabile e soggetto inoltre, dopo un biennio di carica, ad una conferma di gradimento da parte della comunità.
   Risulta che nel 1644, quando morì il feudatario Stefano Cotta, il detto feudatario non possedeva altro che l’imbottato.
   Fatta questa constatazione, e rilevato lì per lì che il defunto Stefano Cotta non aveva lasciato discendenti, la Regia Camera, il 18 ottobre di quell’anno, decise l’"apprensione" del feudo, sostituendo con una tassa l’imbottato già lasciato al feudatario.
   Dallo stesso incartamento risulta l’estensione della Valcuvia storica:
Arcumeggia, Azzio, Bedero, Brenta, Brinzio, Cabiaglio, Caravate, Casalzuigno, Cassano, Cavona, Cittiglio, Cuveglio, Cuvio con Comacchio, Duno, Ferrera, Gemonio, Masciago, Orino, Rancio con Cantevria, Vararo, Vergobbio.
   Poi vennero fuori gli eredi Cotta; ne seguì il 6 aprile 1645 una:
"Ordinazione Magistrale, con la quale si rilascia la porzione del feudo di Valcuvia e del Censo feudale di detto feudo, appresa per la morte di Stefano Cotta a favore di Pietro e Fratelli Cotta, come dichiarati capaci alla successione..."
   Quest’altro Pietro Cotta, riconosciuto come legittimo discendente di Pietro Cotta primo investito, si affrettò a prestare giuramento di fedeltà a Sua Maestà Re Filippo V di Spagna (23 maggio 1645).
   Dato che con il dazio dell’imbottato rendeva ben poco, egli introdusse, senza notificarla, una tassa sull’utilizzo delle acque, il cosiddetto dazio delle Rodigini.
   La cosa non sfuggì al Tribunale di Provvisione (20 aprile 1662):
"Per via di notificazione venne a notizia del Tribunale nuovo, qualmente dal feudatario Pietro Cotta, che lo è della Valcuvia, si scodeva un datio chiamato de i rodigini, qual datio non lo haveva notificato, ne per esso erano mai state pagate le annate in conformità delle cride si sogliono pubblicare di tempo in tempo per ordine de Signori Governatori in questo Stato, et che detto datio lo scodeva senza licenza del Principe non contentandosi del di lui privilegio..."
   La vicenda è descritta dal carteggio in tutte le sue fasi. Nella documentazione annessa al carteggio vi è un elenco di tutti i mulini esistenti nei comuni della Valcuvia, con i nomi dei rispettivi proprietari e degli eventuali affittuari esercenti e con l’indicazione del macchinario azionato (molini da mola, da pista e da resica). Intanto nelle more della causa, che si risolse solo nove anni dopo col pagamento per gli anni di godimento di tale dazio, Pietro Cotta fece in tempo a morire e gli successe nel feudo il fratello Cornelio, che giurò fedeltà al Reuccio Carlo II il 22 dicembre 1666.
   Dal carteggio risulta che a Cittiglio nel 1661 i mulini erano quattro:
- Proprietario: Carlo Luino; Esercente: Dominico de Mosè; due ruote da mola, uno da resica.
- Proprietario: Gio. Angelo e f.lli Sanbiasi; due ruote da mola, uno da resica.
- Proprietario: Pietro de Spazino; una ruota da mola.
- Proprietario: Antonio de Battistello; una ruota da mola.
   Il 13 ottobre 1701 giurò fedeltà a Re Filippo V Pietro III Cotta, nelle mani del Gran Cancelliere Don Michele Francesco Guerra.
   Con Filippo V finì la sovranità degli Asburgo di Spagna sul Ducato di Milano, e con Pietro III doveva terminare anche l’infeudazione della Valcuvia ai Cotta.
   Pietro III Cotta, dopo aver fallito una trattativa di vendita col Signor Marchese Recalcati, il 18 novembre 1728 riesce invece a combinare con Giulio Visconti Borromeo Arese:
"Giuramento di fedeltà prestato a S.M. l’Imperatore Carlo VI dal Marchese don Antonio Litta qual procuratore istituito dal Sig. Conte don Giulio Visconti per il feudo della Valcuvia in esso trapassato per vendita fattagli dal Dottore Collegiato don Pietro Cotta"
   Il 21 novembre Giulio Visconti Borromeo Arese prese possesso del feudo. Suo genero era il Litta che viene citato, padre di quel Pompeo Litta con cui avrà inizio la bonifica del Carreggio.
   Con Pompeo Litta termina infine la storia del feudo di Valcuvia in seguito ai provvedimenti di redenzione delle regalie alienate che si conclusero entro il 1780, a compimento di un lento e inesorabile processo, iniziato nel 1755 con la giunta per la redenzione delle regalie creata da Beltramo Cristiani e culminata col regio dispaccio di Maria Teresa d’Austria del 9 ottobre 1774.




COTTA, Pietro

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 30 (1984)



di Franca Petrucci
COTTAPietro. - Di famiglia milanese, nacque da Serrando nel secondo decennio del sec. XV. Le prime notizie su di lui sono del 1428 e del 1430: giureconsulto e cosignore della Valcuvia, in quegli anni egli fu procuratore rispettivamente per i fratelli della Pergola e per i maestri ducali delle Entrate straordinarie "ad omnes lites..., quas Camera et dux habent et habituri sunt" nella città di Siena. Nel 1433 ebbe un incarico di maggior rilievo: con Gian Francesco Gallina rappresentò Filippo Maria Visconti alla stipulazione della pace da questo conclusa il 26 aprile con la lega veneto-fiorentina. I due rappresentanti, insieme a quelli di Venezia e di Firenze, nominarono nel medesimo giorno Niccolò dEste e Lodovico di Saluzzo arbitri per le questioni sospese fra i tre Stati. Nel 1441 Filippo Maria Visconti, militarmente in difficoltà nella guerra che, affiancato da Alfonso d'Aragona, sosteneva contro la lega capeggiata da Venezia, cercava con confuse mosse diplomatiche di risolvere la sua difficile situazione: il 27 aprile egli creò il C. suo procuratore per concludere la pace con Niccolò III d'Este, al quale doveva offrire per uno dei suoi figli la mano di Bianca Maria Visconti, già più volte promessa a Francesco Sforza. La stessa missione egli doveva compiere (ricevette la procura il 20 giugno) presso il marchese di Mantova.
Quando due anni più tardi il Visconti, alleato con l'Aragonese, si trovò di nuovo in guerra, questa volta contro Francesco Sforza, divenuto intanto suo genero, il C., mutato l'atteggiamento del duca verso lo Sforza e verso l'alleato, fu inviato nelle Marche. Qui, insieme con Giovanni Cambi, il C. si portò presso Alfonso d'Aragona, invitandolo a desistere dall'azione contro lo Sforza e pregandolo di sottoscrivere una dichiarazione attestante la promessa di cessare le ostilità contro di lui. Insieme a Giovanni Balbo, il C. fu nel 1443 inviato di nuovo nella Marca: questa volta i due oratori si recarono prima da Francesco Sforza, assediato in Fano, a cui presumibilmente illustrarono le intenzioni del Visconti, che nel settembre si alleava con Firenze e Venezia contro l'Aragonese. Subito dopo essi si recarono al campo del sovrano, che il duca metteva in guardia dall'avanzare oltre la Marca.
Morto Filippo Maria Visconti, il C. aderì alla Repubblica Ambrosiana e il 24 ag. 1447, insieme con Luigi Bossi, andò a Cremona presso Francesco Sforza, a cui sottopose da parte della Repubblica capitoli simili a quelli che il capitano aveva accettato dal Visconti.
I capitoli furono firmati il 30 agosto, procuratori e commissari il C., Luigi Bossi e Antonio Trivulzio. In essi tra l'altro si stabiliva che lo Sforza, se avesse conquistato Brescia, si sarebbe tenuto la città e in caso di acquisto di Verona avrebbe ceduto Brescia alla Repubblica, riservando per sé la città veneta. Subito dopo però, i Milanesi, non convinti di potersi fidare del condottiero, che si era impadronito di Pavia, inviarono il C. nel campo veneziano per cercare di addivenire alla pace. Non avendo nulla ottenuto, il C. ritornò nel campo dello Sforza. L'anno successivo, prima della battaglia di Caravaggio (15 sett.), vittoriosa per le armi milanesi, il C. tentò di opporsi agli ordini dello Sforza, ritenendoli non opportuni. Smentito dall'esito della battaglia, egli, insieme con Luigi Bossi, recò a Milano Guido Rangone e Francesco Dandolo, fatti prigionieri da Francesco Piccinino. I due commissari entrarono a Milano con molta solennità, da porta Orientale, con accanto i due provveditori catturati e preceduti da un corteo di altri prigionieri. Quando nell'ottobre lo Sforza dette l'annuncio di essersi accordato con i Veneziani, il C., raccolte la parole del condottiero, si precipitò a briglia sciolta a comunicarle ai Milanesi. La Repubblica inviò immediatamente allo Sforza due ambasciatori, che ormai non potevano far cambiare i propositi del condottiero. Tuttavia furono successivamente inviati il C., con Giacomo Cusano, Tommaso Moroni e Giorgio da Lampugnano, i quali comunicarono allo Sforza che il popolo di Milano non riusciva a credere "ch'el suo capitanio sì apertamente gli facesse guerra" e che esso gli offriva tutto quanto, salva la Repubblica, egli potesse desiderare. Ritornando a Milano i legati, senza aver ottenuto che lo Sforza recedesse dalle sue decisioni, furono assaliti da alcuni soldati sforzeschi, che li depredarono. Venuta però la cosa a conoscenza del condottiero, questi punì i colpevoli e fece rendere ai legati quanto era stato loro sottratto, rifondendo a sue spese quanto non fu possibile recuperare.
Nella convulsa situazione che venne a determinarsi nel febbraio del 1450 immediatamente prima dell'ingresso di Francesco Sforza in Milano, non è ben chiara la parte che recitò il Cotta. Nel tumulto sorto durante lo svolgimento del Consiglio del novecento a S. Maria della Scala, fece parte del comitato che si pose a capo del movimento e fu fatto capitano insieme con Gaspare da Vimercate; successivamente eletti 24 cittadini "ad capitulandum cum d. Franc. Sfortia", il C. fu uno degli eletti per Porta Nuova. Il Simonetta ed il Corio narrano però che per motivi imprecisati il C. tentò ad un certo punto di uscire dalla città, da porta Comasina e per questo fu catturato e imprigionato. Certo è che, divenuto duca Francesco Sforza, il C. fu chiamato immediatamente (11 marzo) a far parte del Consiglio segreto e gli fu confermata l'investitura della Valcuvia (16 maggio).
Nel marzo 1453 il C. fu inviato a Firenze. Era in corso la guerra fra Venezia, sostenuta da Alfonso d'Aragona, e Milano, collegata con Firenze. In Toscana l'esercito fiorentino fronteggiava quello napoletano e lo Sforza aveva mandato agli alleati aiuti militari, benché esigui. Il C. fu inviato nella città "per respecto de quelle gente" fornite dallo Sforza. Nel medesimo anno il C. si portò a Genova, da dove nell'agosto dava notizie dei progressi di Renato d'Angiò, diretto in Italia, assoldato dai Fiorentini. Come tutti gli inviati milanesi il C. vedeva la lentezza del viaggio dell'Angiò con molta insoddisfazione e pertanto si dichiarava o d'una malissima voglia". Forse rimase nella città ligure, perché da lì nel febbraio del 1454 scriveva al duca a proposito di un prestito da questo richiesto alla Repubblica, di cui si ritardava la conclusione, secondo il C., con pretesti. Il 17 marzo, meno di un mese prima cioè della stipulazione della pace di Lodi, l'ambasciatore riferiva al duca la decisione degli Anziani di Genova di rifiutare la concessione del prestito stesso. Due anni più tardi, nel giugno 1456, il C. ebbe dal duca l'incarico di accompagnare, insieme con Giacomo Trivulzio, i capitani di Verona e di Brescia, provenienti da Bergamo, a visitare la rocca di Monza. Nel 1458 egli, insieme con Silano Negri, provvide alla revisione degli statuti di Como.
Benché la Santoro sostenga che il C. sia morto nel gennaio del 1466, dopo il 1458 non si hanno altre notizie di lui.
Aveva sposato Maddalena Leonatini, da cui aveva avuto Giovanni Antonio, Giovanni Ambrogio, Giovanni Giacomo, Giovanni Stefano e Margherita, che sposò Gian Antonio Simonetta, per le nozze dei quali F. Fidelfa compose un'orazione. Il C. era stato in relazione anche con P. C. Decembrio, che gli aveva inviato in omaggio il suo De laudibus Mediolanensium urbis panegyricus.
Il figlio GiovanniGiacomo fu giurisperito collegiato. Sposò, secondo il Calvi, Maddalena figlia di Alberto Pio, secondo la Santoro, invece (pp. 22, 41, 240), Maddalena Contrari di Ferrara. Membro del Consiglio di giustizia dal 20 nov. 1480 e podestà e commissario di Como nel 1490-91, il 30 aprile 1491 divenne membro del Consiglio segreto. Nominato commissario ducale nell'Oltrepò il 15 febbr. 1494, morì nel 1506.